Requiem
- Visconti Dimezzato
- 8 mag 2020
- Tempo di lettura: 3 min

Sono un’artista, o, almeno, mi considero tale. Questo termine a volte suona un po’ pretenzioso anche a me, lo ammetto. Mi faccio tante domande, e, quando non so darvi risposte (la maggior parte del tempo, in realtà), prendo una matita, un foglio, e disegno. Di solito è un meccanismo più catartico che altro: quello che metto su carta finisce per non avere un significato preciso, ma alla fine va bene così, sono idee confuse, e forse devono rimanere tali.
In questo periodo però (e non ne vado fiera), ho cercato di smettere di farmi domande, di porre un freno all’immaginazione. Sola nella mia stanza, sola con i miei pensieri, ero convinta che troppi punti interrogativi avrebbero generato un disastro di proporzioni inimmaginabili; d’altra parte, ciò che spaventa di più l’essere umano è l’ignoto, ed io, come tutti, questa situazione non l’avevo mai vissuta. Ho scoperto però che per noi, in quanto umani, in quanto persone, è impossibile smettere di pensare, di interrogarci; proprio per questo l’introspezione mi è parsa un’autentica boccata di aria fresca.
In questo momento storico ciò che ho appena detto potrebbe suonare estremamente paradossale, forse lo è, ma la sensazione era quella, senza ombra di dubbio.
“Cogito ergo sum”, dopo tutto, aveva ragione Cartesio.
Dunque, dopo aver ricominciato a pensare, mi è sembrato di ricominciare a vivere, ed il frutto delle mie riflessioni è proprio questo disegno, che ho deciso di intitolare “Requiem”.
All’inizio pensavo di tenerlo per me, lo vedevo intimo, personale, più di ogni altra mia “opera”, poi però, guardandolo, mi sono resa conto del fatto che la storia, che tramite esso ho voluto raccontare, è una storia universale, la stessa che, forse con altri mezzi, potrebbero raccontare milioni di persone come me, che, ora, vivono esattamente come me.
Requiem è una storia di libertà e di crescita stroncata; non una trasformazione, forse più una metaforica morte.
Prima di prendere carta e matita, o, in questo caso, photoshop e tavoletta grafica, mi sono interrogata a lungo, e sono giunta a pormi due delle mie famosissime domande. Volevo capire come, nel profondo, stessi vivendo questa quarantena, ma anche come fosse il mondo senza di me, senza di noi, e come sarà una volta che potremo ricominciare a viverlo.
Osservando la mia finestra, e la stradina deserta al di fuori di essa, mi sono resa conto di trovarmi in una sorta di limbo, di stasi. Ero ferma, completamente immobile, e mentre il tempo scorreva inesorabile, tutto si muoveva in avanti, verso un altro giorno, verso il futuro, ed io potevo solo rimanere lì a guardare, con l’amara consapevolezza che ogni ora, persino ogni minuto, era un minuto rubato alla mia esistenza, a quella crescita che doveva avvenire proprio negli ultimi mesi di scuola, quella vera, senza schermi e distanziamento sociale.
Ho lasciato il Liceo Visconti senza accorgermene, senza sapere che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno tra i corridoi bianchi e dietro le celeberrime colonne. Forse proprio perché è stato un giorno così ordinario, a tratti noioso, non ricordo nulla di quello che ho fatto.
Quando si pensa ad un addio, si visualizzano solo immagini memorabili, pompose: pianti, risate, ultimi saluti, abbracci. Si fa di tutto per marchiarlo a fuoco nella memoria, per avere qualcosa da raccontare, per non dimenticare mai. Io di questo non ho nulla. Sono uscita dal portone della scuola, ho fumato una sigaretta e, dopo aver gettato via il mozzicone, con lo zaino in spalla, ho fatto un passo.
Di sicuro avrò fatto centinaia di passi per arrivare alla fermata del tram, aprire la porta di casa, e trascorrere un pomeriggio nel nulla, probabilmente stravaccata sul divano, con la mente vuota e nessuna preoccupazione in vista, eppure l’unico passo che conta è proprio il primo.
Senza saperlo, proprio quel movimento così ordinario, quasi inconscio, è stato la propulsione verso il futuro, verso la tanto temuta università, verso nuovi ambienti, nuove persone, una nuova vita.
Non ero pronta allora e non lo sono tutt’ora, avrei solo voluto sapere cosa mi lasciavo alle spalle.
Forse mi sarei girata per guardare un’ultima volta quella versione di me che ancora stava fumando appoggiata alla ringhiera, come sfondo la bellissima facciata del liceo che si stagliava su un cielo più azzurro che mai.
Ciò che rappresenta quel luogo, ciò che rappresenta quella ragazza, nel mio immaginario ancora lì, immobile, è tutto finito, morto.
Forse è stato meglio così, o forse è stato uno scherzo del destino, non so decidermi.
So solo che ora devo continuare a camminare, non c’è più tempo per voltarsi.
di Francesca Mucci
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