Lavoratori senza tempo
- Visconti Dimezzato
- 21 mar 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Sorry we missed you e l'economia senza garanzie
Avete mai guardato solo per qualche secondo la persona a cui avete aperto la porta l'ultima volta che vi è stato consegnato un acquisto online? Come molti altri membri della società, i fattorini addetti alle consegne, nonostante siano ormai indispensabili in un mondo nel quale avvengono milioni di acquisti sul web ogni giorno, rimangono individui quasi inesistenti, meri burattini di aziende e marchi. Sorry we missed you, l’ultimo lungometraggio del regista inglese Ken Loach, pone lo spettatore proprio dalla parte di un addetto alle consegne a domicilio, tra i membri della famiglia Turner di Newcastle, e lo travolge con tutte le difficoltà e le complicazioni che gravano tutt’ora sulle spalle dei cittadini in molti paesi del mondo dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Il pubblico diventa Ricky Turner (interpretato da Kris Hitchen), si assume la responsabilità di vivere con due figli adolescenti ed una moglie che lavora tutto il giorno e di trovare un impiego stabile, di assicurarsi una vita serena ed una disponibilità economica sufficiente. Diventa ufficialmente parte della working class inglese, uno tra i tanti lavoratori anonimi ed invisibili senza i quali la società non andrebbe avanti.

Tutto, almeno apparentemente, ruota attorno ad un furgone. Un furgone che serve per le consegne, un furgone che serve per lavorare, un furgone che serve per essere felici. Ma questo impiego porta davvero alla felicità? Chi si ritrova nella condizione di Ricky, disoccupato con una famiglia da mantenere, non ha la forza né la volontà di accettare e considerare in modo consapevole i rischi e i problemi causati da un lavoro all’interno del sistema del delivery. La proposta è semplice: con un mezzo di trasporto personale, di acquisto proprio, e un apparecchio geolocalizzato che registra ogni consegna ed ogni spostamento, l’unico compito da svolgere quotidianamente è quello di portare i pacchi ai destinatari. Però non sono ammessi ritardi, o errori. Soste. O imprevisti. Questo tipo di lavoro fa parte della cosiddetta gig economy (laddove per gig s’intende una piccola porzione del reddito di un cittadino), la quale comprende tutti gli impieghi lavorativi a breve termine o part-time, finalizzati ad arrotondare il guadagno percepito attraverso un altro lavoro.
Una delle caratteristiche principali della gig economy è l’assenza di ogni tipo di garanzia: per i freelance workers, lavoratori in proprio, non esistono tutele in materia di malattia, infortunio o furto; l’organizzazione del lavoro è oltretutto scarsa e inefficiente. Le aziende che gestiscono i lavori collegati al delivery necessitano di una piattaforma informatica online che amministri completamente le richieste lavorative e gli ordini dei clienti, la quale però genera spesso bug o va incontro a difficoltà di tipo tecnico che rallentano le consegne e provocano la perdita di alcune registrazioni e, di conseguenza, di alcune ore di lavoro degli addetti. Inoltre la mancanza di regole precise e fisse riguardo al funzionamento e al metodo, nonché alla retribuzione, del servizio, lascia ai proprietari di tali aziende la libertà di modificare la paga dei sottoposti a proprio piacimento. Ma allora qual è il motivo per entrare a far parte di questo sistema precario e faticoso? Le cause sono diverse in base alle condizioni di ogni individuo, e il risultato sono persone in cerca di un guadagno, illuse di possedere una propria autonomia, che improvvisamente realizzano di essere completamente dipendenti dalle aziende.
In un contesto lavorativo che in molti paesi del mondo non offre abbastanza opportunità fruibili da tutti i cittadini, affidarsi alla gig economy appare come l’unico modo di superare determinati periodi di instabilità finanziaria. Infatti nonostante venga spesso associata alle più innovative aziende di food delivery, delle quali i lavoratori principali sono giovani in cerca di un piccolo salario temporaneamente, in vista di un impiego stabile una volta terminato il periodo di formazione, essa comprende anche una porzione sempre più grande di individui per i quali costituisce l’unica fonte di guadagno. La loro realtà è spesso deprimente e costretta ad un incessante corsa all'inseguimento dei clienti, limitata dalla mole di lavoro ingente da svolgere giornalmente e sottopagata. Il tempo è denaro, ogni minuto perso per una sosta abbassa la paga ricevuta, ogni giorno trascorso per la cura dei figli o per la propria costa mille pound. E non è sempre facile comprendere tutto questo prima che il danno economico sia irreparabile. È complicato aprire gli occhi e dire “ho bisogno di più tempo, non posso continuare in questo modo”, perché vorrebbe dire lasciare tutto e ricominciare da capo, per la terza, quarta volta; significherebbe deludere la propria famiglia, ammettere, innanzitutto a sé stessi, di aver fallito, ancora.
Quindi si va avanti così, si percorre di nuovo la strada asfaltata che porta al magazzino, alla guida di un furgone bianco che diventa sempre più grigio, guardando avanti con gli occhi sempre più stanchi, con il volto spossato e annichilito. E intanto la famiglia si spezza, divisa dalle difficoltà economiche, tormentata dai dissidi irrisolti. Privata del tempo. Scusa, non ti abbiamo trovato, recita il biglietto che Ricky lascerà sulle porte delle case vuote, in assenza dell'acquirente. Ma chi è davvero perso in questa corsa contro il tempo?
di Irene Graziani
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