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F. De Andrè: echi di una coscienza anarchica

  • Immagine del redattore: Visconti Dimezzato
    Visconti Dimezzato
  • 24 mar 2020
  • Tempo di lettura: 6 min


“Signora libertà, signorina anarchia

Così preziosa come il vino,

Così gratis come la tristezza

Nella tua nuvola di fumo

E di bellezza”


Sono già diversi anni che giornalisti e critici di ogni sorta si affollano a codificare e descrivere quella che è stata la poetica di F. De Andrè, la cui scomparsa ha prodotto un incolmabile vuoto nello scenario culturale italiano. Alla morte del cantautore (1999), la nazione intera s’è vista privata di una delle figure che meglio seppe interpretare le angosce e le contraddizioni del suo tempo, e che da poco aveva incominciato a raccontarle di persona. Fabrizio, nella sua ostinata tendenza a trasgredire la consuetudine, non amava esporsi al pubblico, e non fu dunque un caso se tra il suo esordio di cantante ed il suo primo concerto passarono quindici anni ed un rapimento. Gli anni dell’ “assenteismo”, in cui il cantautore si rifiutò di salire sul palco per motivi tanto personali quanto ideologici, furono percorsi da rumorose polemiche politiche e sociali, che investirono in modo trasversale ogni sfera culturale. Al grido di “la musica è di tutti”, gruppi di giovani anarchici si scagliavano contro le nuove logiche di mercato ed invocavano l’importanza di una gratuita fruizione musicale ed artistica. Erano gli anni in cui il processo di commercializzazione e massificazione dell’arte avanzava incontrastabile, e i contestatori intuirono fin da subito il grande paradosso che si andava radicando nella produzione di alcuni cantanti. Pur dichiarandosi “compagni”, essi aderivano a pieno alle logiche di mercato del sistema musicale, che rappresentavano una concezione diametralmente antitetica a quella di musica libera che andavano professando. A fare le spese di questo grande fervore ideale furono artisti come F. De Gregori o come i Led Zeppelin, i cui concerti furono interrotti dalla violenza di un pubblico indispettito per il costo troppo elevato del biglietto. In anni così accesi e controversi De Andrè predilesse la discrezione, optando per una “presenza invisibile”, ma non per questo meno forte e profonda. Se non con le pubbliche apparizioni, F. diede un impulso al dibattito politico con le canzoni; e lo fece in modo esemplare nel 1973 con il concept album “Storia di un impiegato”.

Il disco, realizzato con la partecipazione di Nicola Piovani e Roberto Danè, offre un incantevole lettura poetica della rivalsa del 68 e dell’ eredità che essa lasciò ai più oscuri anni 70. Attraverso le nove canzoni del disco, il cantautore racconta la storia di un impiegato qualunque, che si fa però viva espressione di un sentimento allora diffusissimo in Italia: il sentimento anarchico. L’ impiegato, annegato in una vita di affanni e di muta sottomissione a quelle che sono le dinamiche del potere, incomincia a sognare e divagare (03. La bomba in testa; 04. Sogno numero 2) immaginandosi terrorista in un ballo mascherato – la scelta del luogo non è certo casuale se si considerano i giochi di apparenze che regolano la società moderna- dove sono riuniti tutti coloro che per la sua esperienza di vita rappresentavano i potenti e gli speculatori. … “tra gli ospiti di un ballo mascherato/ Io mi sono invitato / A rilevar l’impronta/ dietro ogni maschera che salta” (La Bomba in testa). Il sogno svanisce e il sognatore si ritrova nuovamente prigioniero della realtà che detesta, e che non può più rassegnarsi a vivere. Decisosi finalmente a spezzare le catene che tanto forzatamente lo vincolano all’ ipocrisia della società borghese, l’impiegato piazza una bomba – questa volta vera - sotto il palazzo del potere. L’ esito della vendetta è disastroso: L’inesperienza ha la meglio e l’ ordigno rotola verso un chiosco di giornali. Il bombarolo viene arrestato ed ha occasione di riflettere sulla vanità e sui limiti di un’azione solitaria, maturando quindi una conclusione che mette in crisi l’individualismo imperante caratteristico del nostro sistema sociale: per ribellarsi all’ ipocrisia del dogma e alle contraddizioni del potere occorrono azioni collettive e condivise. L’ impiegato assimila così la propria condizione a quella dei carcerati, mettendo in luce la contrapposizione tra un sistema di vera uguaglianza - quello degli internati- e la società malata nella quale era costretto a vivere. “ Non mi aspettavo un vostro errore/ uomini e donne di tribunale/ se fossi stato al vostro posto / ma al vostro posto non ci so stare”. Lo stesso principio di insofferenza verso le convenzioni e le ipocrisie del potere è stato ribadito dal cantautore per analizzare la vicenda del suo sequestro, le cui reali dinamiche non sono ancora del tutto chiare.

Certo è che in occasione del suo rapimento, F. diede prova della sua illuminante etica anarchica e di quella sua impassibile vicinanza agli ultimi (puttane, malati o terroristi che siano) cui ha sempre dedicato un’ attenzione particolare, riuscendo a percepire, nonostante le sue borghesissime origini, l’ odio sociale che aleggiava tra le classi più umili. nella vicenda del suo sequestro, il cantautore individuò fin da subito due vittime: il rapito e il rapitore. L’ anonima sarda era infatti un gruppo terroristico di matrice proletaria che viveva una realtà di indifferenza e di abbandono da parte dello stato, e che solo tramite i rapimenti riuscì a levare la propria voce e far udire le proprie istanze. Lo stesso odio sociale viene ben espresso nella celebre canzone “il giudice” ( non al denaro non all’ amore né al cielo) il cui protagonista, deriso in gioventù per il suo metro e mezzo di statura, decide di farsi giudice con il solo obbiettivo di vendicare la sua frustrazione in un aula di tribunale.

Tramite la sua prospettiva etica profondamente umana ,e dunque spoglia di qualunque di congettura moralista, De andrè analizza la situazione del giudice -in fondo non tanto distante da quella dei suoi rapitori- con incredibile lucidità. In entrambi i casi egli attribuì la vera responsabilità alle malattie della società e non a chi quelle malattie è stato costretto a subirle. Risulta ora evidente come la riflessione intellettuale di De Andrè si sia scagliata contro un mondo di soprusi e speculazioni, di ingiustizia e di indifferenza, di servi e di padroni: contro il mondo contemporaneo, del quale noi siamo felicemente schiavi.

Fu tuttavia sul palco di Sarzana che - due anni dopo il suo rapimento- De Andrè regalò al pubblico e ai giornalisti uno dei più limpidi e fedeli ritratti della sua concezione artistica. Con la chitarra in una mano ed una sigaretta nell’ altra, il cantautore affermò che ciascun individuo è artista, ma che quasi nessuno ha la possibilità di esercitare la propria arte. Causa di tale contraddizione è da ricercare nella frenesia della nostra società: “come si può d’ altra parte essere artisti lavorando otto ore al giorno”. E’ forse sufficiente questa considerazione per iniziare a comprendere il significato ultimo che F. attribuì alla sua condizione “privilegiata” di cantautore. Egli fu capace di intravedere un principio di uguaglianza quantomeno mentale che lega gli individui, e che si configura proprio nella capacità creativa, nella febbre artistica alla quale tutti siamo soggetti.

E’ verosimilmente questo il concetto più profondo che De Andrè e la generazione di intellettuali a lui contemporanea -molte sono infatti le analogie di pensiero con P. P. Pasolini e C. Pavese- si adoperarò a tramandarci, e che noi dobbiamo cogliere e valorizzare. Gli uomini d’oggi hanno il dovere di non piegarsi alla sterilità di ideali e passioni che vengono loro impartiti, ma di perseguire ostinatamente quella introspettiva ricerca artistica, quella insaziabile fame creativa che permette loro, malgrado tutto, di rimanere liberi. Perché è forse questo che oggi s’intende per libertà: la capacità di non lasciarsi assuefare dalle dinamiche di una società di massa volta ad una esclusiva -e a tratti ossessiva- ricerca dell’utile; la capacità di rinunciare al consapevole e felice soggiorno nella gabbia del consueto, alla mentalità schematica e razionale che tanto piace ai nostri tempi. L’anarchia di De Andrè non si limita ad analizzare un disagio politico e sociale, ma tende a rappresentare per certi versi il malessere “psicologico” e culturale nel quale l’uomo contemporaneo si ritrova costretto. Quella di De Andrè è un’anarchia mentale; un grido di rivolta che si leva contro il sistema culturale di oggi, colpevole di aver innescato un processo di “massificazione” generale che ha reso l’ arte un anonimo prodotto commerciale. “La schiavitù da impiegato” dalla quale il protagonista del disco vuole emanciparsi, riguarda esattamente il suo rapporto esistenziale di uomo con la frenetica società contemporanea, che tende ad escludere con foga sempre maggiore la componente “umana” dalle sue dinamiche utilitaristiche, dinamiche alle quali è nostro compito avere il coraggio di opporsi.

di Paolo Timossi


 
 
 

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