Didattica a casa
- Visconti Dimezzato
- 30 mar 2020
- Tempo di lettura: 4 min

Quarantena giorno venti. Fuori la primavera fiorisce, le rondini cinguettano e i pochi pedoni che si aggirano per le strade semideserte si guardano intorno come se, nelle buste della spesa, invece di avere scorte di alcol e carta igienica per un esercito, custodissero chili di lingotti d’oro appena rubati dalla zecca di stato. I pochi eletti che hanno un cane sono guardati con la stessa invidia con cui si guarda chi possiede il nuovo modello della Maserati. L’unica presenza esterna che si insinua nelle nostre case sono le video lezioni.
La didattica a distanza è stata dall’inizio un salto nel buio, per noi studenti, ma soprattutto per i nostri professori, che fino a venti giorni fa avevano immense difficoltà ad aprire il registro elettronico e a calibrare la LIM e nel giro di due settimane hanno dovuto imparare non solo cosa significasse la parola webcam, ma anche come si tiene una videoconferenza. Alcuni di loro sono davvero riusciti a fare di necessità virtù, e giorno dopo giorno imparano a muoversi sempre più agilmente in questo mondo bidimensionale, altri stanno ancora facendo a pugni con queste nuove modalità didattiche, ma l’epifania virtuale arriverà anche per loro prima o poi. Anche noi studenti, che siamo già rodati al web, ci troviamo un po’ spaesati in questa situazione e non abbiamo più il compagno di banco con cui condividere le ore di lezione. Per noi alunni del Visconti smettere di andare a scuola è stata una doppia perdita, non solo perché ci è stato tolto il contesto sociale più importante delle nostre giornate, ma perché anche in quei momenti neri quando tutto sembrava perduto, potevamo farci consolare dalla vista nostro storico cortile, andare a guardare negli occhi il pallido busto di Ennio, con un sentimento a metà tra rancore e venerazione, e magari farci una chiacchierata con qualcuno dietro le colonne. E, ammettiamolo, anche dopo attraversato l’inferno, se dai bianchi corridoi del Visconti guardi il cielo blu non puoi fare a meno di pensare: “Però, che bella sta bella fregatura.” come canta Mannarino.
Dentro casa siamo compressi, stressati e svogliati e a separarci dai nostri impegni scolastici e dai nostri professori, oltre a quella insormontabile pila di pregiudizi che ci divide ogni giorno, ci si mette anche lo schermo di un computer.
Ma quanto cambia effettivamente la scuola in questo modo? A un’analisi superficiale i cambiamenti effettivi potrebbero sembrare pochi, ma non è così.
L’istituzione scolastica si fonda su tre principali dimensioni: quella comunitaria, che educa il singolo a vivere in un contesto che emula quello della realtà sociale; quella culturale: la scuola deve produrre cultura e trasmetterla ai propri alunni, e infine quella curricolare, ovvero quella dimensione che si occupa di fornire agli studenti conoscenze e competenze che seguono il programma ministeriale.
La prima dimensione che viene meno è ovviamente quella comunitaria: anzitutto la didattica a distanza non impone agli alunni di seguire una routine stabile e ripetitiva come di norma, ed è vero che a volte può diventare noiosa, ma ci toglie tutti dall’imbarazzo di vagare per i corridoi di casa, con lo sguardo vitreo e i piedi che a malapena si sollevano da terra, alla ricerca di uno scopo per la giornata. Secondo poi, la dimensione comunitaria è una delle più importanti nell’educazione di una generazione. Non ci pensiamo molto spesso, ma imparare a vivere armonicamente con persone del tutto diverse da noi è importantissimo per il nostro ruolo di cittadini: attraverso la costretta convivenza nella classe e nella scuola si impara il rispetto dell’opinione altrui e l’importanza del benessere comune. Purtroppo l’importanza del creare un rapporto di rispetto e stima reciproca nell’ambito scolastico viene spesso tralasciata, probabilmente perché di tutte le sfide con cui ci mettiamo alla prova a scuola, questa è la più ardua. Gli studi pedagogici degli ultimi cinquant’anni hanno ampiamente dimostrato quanto i rapporti emotivi che ci costruiamo siano fondamentali per i nostri processi cognitivi. Detto in parole semplici: un ragazzo che durante la crescita è stato ferito o umiliato dai genitori, dai compagni o dai professori ha infinite meno possibilità di andare bene a scuola e di appassionarsi a ciò che studia rispetto a un ragazzo cresciuto in un ambiente sano e costruttivo. Si dimostra così l’importanza del rapporto personale nel processo formativo.
Entriamo qui nella seconda dimensione di cui si fa carico la scuola. La cultura. Vorrei sottolineare la fondamentale differenza semantica che intercorre tra cultura ed erudizione: L’erudizione è sterile apprendimento di dati, è nozionismo fine a se stesso. La Treccani scrive sull’erudizione che non sempre è accompagnata da finezza di gusto, e in ciò si distingue dalla cultura. Questa infatti, fa degli studi esperienza, rielabora le nozioni in modo che arrichiscano non solo chi le possiede, ma facciano anche fiorire l’ambiente a lui circostante. Perché possa trasmettersi la cultura è necessario che chi si siede dietro la cattedra non sia solamente preparato, ma sia appassionato, è necessario che ami ciò che insegna e che voglia trasmettere la sua passione, non le sue conoscenze e perché avvenga questo è necessario che si crei un buon rapporto con la classe. Purtroppo è difficile trovare professori così motivati; nella mia esperienza scolastica mi ritengo fortunata ad aver bisogno di più di una mano per contare quelli che rientrano in questa categoria. chiaro che se questo fenomeno è raro in una situazione normale, in questo scenario surreale, trasmettere cultura diventa ancora più difficile. A questo punto vorrei ricordare quanto le tre dimensioni si intersechino una con l’altra e quanto il miglioramento delle singole sia proporzionale alle altre. Ecco quindi che appare chiaro che anche la dimensione più prettamente pratica, come quella curricolare, venga meno, nel momento in cui le altre due sono compromesse. Bisogna inoltre ricordare che noi esseri umani per crescere abbiamo bisogno del confronto con gli altri, Aristotele scriveva: “l’uomo è un animale sociale”, ed è nel rapporto con gli altri che conosce se stesso e il mondo che lo circonda. E infatti, nel dialogo Il Menone, Platone fa parlare Socrate così: “Se con la parte migliore del tuo occhio (ovvero la pupilla) fissi la parte migliore dell’occhio che ti sta davanti, vedi te stesso”, ed è vero che nelle videoconferenze possiamo disattivare la telecamera e non farci vedere, ma così perdiamo la parte migliore della scuola: il contatto sociale. Concludo dicendo che anche se aver perso gli ultimi mesi di scuola è una sofferenza, sappiamo tutti quanto sia importante il nostro contributo in questa difficile situazione e, proprio in qualità di cittadini, ci impegniamo a sacrificare alcuni dei nostri desideri per un bene che va aldilà del singolo.
di Carolina Ajmone Marsan

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