Apologia dell’occupazione, analisi della sconfitta
- Visconti Dimezzato
- 26 mar 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Il Visconti Dimezzato non è un giornale di cronaca o di “semplice” approfondimento, ma è un giornale d’opinione, è il giornale d’istituto del Visconti: deve stimolare un dibattito interno al corpo studentesco tanto acceso quanto costruttivo, deve essere uno strumento degli studenti per sviluppare autonomamente il loro spirito critico. Se volete avere una visione imparziale dei fatti siete pregati di leggere sia questo editoriale sia il punto di vista degli studenti contrari all’occupazione, raccontato da Susanna Baldo. Buona lettura!

All’alba dell’11 febbraio 2021 il Visconti veniva occupato per la prima volta dopo 10 anni. Le motivazioni di un gesto estremo come questo vanno cercate innanzitutto nel disagio materiale vissuto nelle scuole di tutto il paese nell’ultimo anno. Il problema però non è stata la semplice modalità del rientro a gennaio, ma la rabbia degli studenti italiani è il frutto di un malessere antico, che ha le radici nelle politiche della scuola degli ultimi 30 anni e che è esploso con la Dad. E’ il malessere di una generazione alienata per deliberata scelta politica, da ben prima dell’inevitabile imposizione della didattica a distanza. La nostra risposta immediata ai problemi contingenti è stata quella dello sciopero. Reggendosi esclusivamente sulla forza del discorso politico portato e seguendo una logica coerente quanto intransigente, il Collettivo ha dimostrato la praticabilità di una politica studentesca di massa al Visconti. Nato dall’esigenza pratica di coordinare e, appunto, dare coerenza politica agli scioperi/picchetti di gennaio, che hanno riunito per tre volte un numero di studenti che al Visconti in tempi liberi dal Covid scendeva in piazza una volta ogni due anni, al Collettivo va riconosciuto oggettivamente il merito di aver saputo rappresentare il Visconti in un momento in cui l’Italia esplodeva per le mobilitazioni studentesche. Gli scioperi hanno visto una partecipazione crescente, culminata con la manifestazione al Campidoglio del 25 gennaio, in cui lamentavamo l’ipocrisia del Comune e della Regione nella gestione emergenziale dell’Atac: esigevamo che salire su un autobus non corrispondesse a una roulette russa del coronavirus.
Non ci siamo mai illusi che avremmo avuto una risposta immediata da parte delle istituzioni, che si dilettavano in mirabolanti crisi di governo, ma tutte le scuole di Roma e d’Italia erano in fermento; un livello di mobilitazione senza precedenti negli ultimi anni, al Visconti nell’ultimo decennio. La situazione restava identica e la rabbia cresceva, la conclusione alla quale siamo giunti, guardando a cosa succedeva nelle scuole di Milano, e a Roma al Kant e all’Albertelli, poteva essere una sola: l’occupazione. Da questo momento in poi le critiche possono essere potenzialmente infinite, così quanti gli errori che possiamo riconoscere di avere fatto. Ma prima di procedere, vorremmo ricordare al lettore che in momenti decisivi e delicati come questi le contraddizioni sono inevitabili, intrinseche a un’azione di questo tipo. L’occupazione presuppone un tessuto politico che abbia la forza di compiere un’azione illegale, un’azione che sconvolge temporanemaente la quotidianità di studenti, docenti e personale Ata. Abbiamo ritenuto che non solo ci fossero gli estremi per farlo, ma che fosse nostro dovere. Probabilmente il primo dei numerosi errori è stato di comunicazione interna: in un eccessivo zelo “carbonaro” e nella legittima paura che corresse troppo la voce e ci fossero fughe di informazioni, abbiamo coinvolto nell’organizzazione pratica una parte estremamente ristretta, determinata e affidabile del Collettivo. Non c’è stata una discussione aperta per una segretezza che si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato è venuta meno la trasparenza e la coerenza che ci eravamo prefissati, nel pratico l’irruzione a scuola è stato un successo. Una volta che Angela ha aperto il portone siamo entrati, di corsa, in circa 60 dentro scuola, abbiamo barricato ed effettivamente la scuola era occupata. E’ stato un successo perché nonostante Angela si sia spaventata e le malelingue inistano a insinuare la surreale calunnia secondo la quale sia stata bloccata con la violenza, abbiamo fisicamente occupato la scuola, barricato piano terra e primo piano. Gli errori veri, gravi sono venuti dopo: ci siamo ingenuamente illusi che la trattativa con la preside fosse un’ipotesi possibile, che la dirigente potesse transigere e assecondarci, mentre si trattava di un suo obbligo, una sua prerogativa istituzionale e di una sua responsabilità legale assicurarsi che lasciassimo la scuola, che l’occupazione fosse sventata. Complice anche la minaccia dello sgombero violento da parte delle forze dell’ordine (mentre la Questura di Roma, dopo la pessima figura fatta all’occupazione del Kant, in cui la polizia ha malmenato uno studente, aveva annunciato che avrebbe fatto cadere tutte le denunce per interruzione di pubblico servizio e occupazione abusiva) abbiamo accettato le condizioni della preside. In questo sfacelo dell’organicità dell’occupazione e della sua organizzazione, la responsabilità individuale di alcuni che hanno seguito la trattativa si sovrappone alla responsabilità collettiva, la mancanza di una gerarchia chiara e di idee precise e condivise da tutti su come svolgere la trattativa ci hanno messo in ridicolo in primis davanti a noi stessi, che dopo tanta fatica e abnegazione, dopo ansia, angoscia e notti insonni non siamo riusciti ad arrivare fino in fondo nell’impresa. E’ innegabile che i pochi presenti da quel momento in poi siano venuti meno alle loro responsabilità e alla serietà che avrebbero dovuto mantenere, che il loro comportamento sia stato irrispettoso verso gli ospiti invitati a tenere i corsi (di altissimo livello e di gran lunga più interessanti dei monotoni e sterili temi affrontati nelle assemblee di istituto, purtroppo pressoché ignorati). Questa mancanza di serietà è imputabile al fatto che, accettata l’autogestione, quindi la presenza del personale ATA e di alcuni docenti nella scuola, buona parte degli occupanti avevano inteso che si trattasse effettivamente di un’autogestione, un’autogestione come siamo stati abituati negli anni, in cui eravamo costantemente attenzionati dall’autorità scolastica. Quest’aspettativa si è scontrata con una realtà di totale anarchia, recepita da molti come un invito al cazzeggio. Dato che buona parte della responsabilità dell’avere accettato l’autogestione era individuale, di chi aveva trattato in prima persona, e che le volontà e le esigenze della “massa” occupante erano state disattese, la delusione è stata tale che i primi a perdere fiducia nel percorso intrapreso e a cadere nel cinismo sono stati coloro che con fatica lo avevano costruito. La constatazione del fallimento dell’occupazione, tradita dalla paura di pochi all’ultimo momento ha prodotto il rifiuto stesso dell’autogestione, sfociato in un’anarchia generalizzata.

Non è una giustificazione per il mancato autocontrollo, anche vista la pandemia, ma semplicemente la causa di certi comportamenti. Sulla gestione dal punto di vista epidemiologico abbiamo registrato ogni persona che ha fatto ingresso nell’istituto per garantire il tracciamento, ospiti esterni e studenti, quindi la situazione era assolutamente sotto controllo anche da questo punto di vista, per quanto di fatto le distanze non siano state mantenute da buona parte degli studenti. Il fallimento dell’occupazione e le critiche che si è legittimamente attirata fanno sorgere dubbi sulla maturità e sulla buona coscienza del suo tessuto studentesco. Se fosse per chi critica, dai crumiri degli scioperi di gennaio fino ai benpensanti schifati dall’idea di un’occupazione il mondo sarebbe ancora sotto il giogo del feudalesimo. Se l’ipotesi di una politica di massa al Visconti è stata verificata come realmente possibile, bisogna ancora capire se una politica di qualità, intelligente e conflittuale sia praticabile, visti i numerosi limiti, di sicuro non invalicabili del nostro tessuto studentesco. Ad esempio dalle alterne vicende di questi mesi è emerso come per gli studenti del Visconti la politica autorganizzata rischi di cadere velocemente nella scusa giusta per il cazzeggio, mentre quella organizzata (penso al rinato nucleo più o meno delineato della Rete degli Studenti Medi a scuola, sindacato studentesco di centrosinistra liberale legato alla CGIL) che può piacere o meno, ha però preso parola nel dibattito del collettivo quasi esclusivamente per dissuadere sia dagli scioperi che, ovviamente, dall’occupazione. La soluzione è la costruzione di un collettivo che funga da “parlamento” informale in cui chiunque faccia e voglia fare politica trovi non solo modo di farla, ma di confrontarsi con gli studenti che la pensano diversamente, come chi la fa al di fuori della scuola riesca a portare le sue posizioni in un lavoro politico all’interno della scuola. Ma questo significa piegare la testa rispetto alla volontà generale di Rousseauiana memoria, non cercare di limitare i toni delle mobilitazioni. Fare politica a scuola significa combattere il disinteresse insistendo sulla contraddizione sociale, contraddizioni che certe forze concertative cercano di pacificare, entrando apertamente in contraddizione con la missione progressiva che dicono di avere, esponendosi come forza filo-repressiva e reazionaria.
di Ismaele Calaciura Errante
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